È il 20 febbraio e un ragazzo di 38 anni di Codogno, in provincia di Lodi, si reca in ospedale. Il giorno dopo, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, annuncia il primo caso italiano di contagio da nuovo coronavirus. È passato un mese, anche se sembra un anno. Oggi i contagiati sono oltre 47mila e l’Italia ha superato la Cina sia per numero di morti giornalieri che di morti complessivi.
Quello a cui stiamo pensando un po’ tutti è sacrosanto: ci mancano gli abbracci, ci manca l’affetto di amici e parenti, ci mancano le passeggiate nel verde, le attività all’aria aperta, specie ora che sta scoppiando la primavera. Sensazioni che sto vivendo in prima persona. Restiamo a casa, la nostra casa.
Ma cosa accadrebbe se la situazione che sta vivendo la Lombardia, la città di Bergamo, si verificasse in un paese in via di sviluppo? In Kenya, tra le baraccopoli di Nairobi, per esempio, tra le lamiere di uno slum. Kibera è il più grande slum di Nairobi e – con molta probabilità – dell’intero continente africano. Fonti ufficiali dicono che ci vivano 170mila persone, quelle ufficiose 500mila, forse un milione.
Proprio qui, proprio a Nairobi, in Kenya, come in altri 33 dei 54 paesi che compongono l’Africa il coronavirus è arrivato. E questo sta facendo preoccupare molto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha visto proprio nel Kenya, uno dei paesi guida dell’Africa orientale e non solo, un punto di partenza per cercare di porre in atto ogni forma di prevenzione. Del resto, fattori come la crisi climatica, l’incremento demografico e la facilità con cui si viaggia da una parte all’altra del globo ci hanno resi molto più vulnerabili di un secolo fa e un’infezione che si verifica in un angolo remoto della Terra può raggiungere il capo opposto nel giro di 24 ore. È da queste premesse che l’Oms sta cercando di spingere i governi africani a correre immediatamente ai ripari per evitare il collasso dei servizi sanitari nazionali.
Il Kenya è un paese a cui tengo particolarmente. Ci sono stato tre volte negli ultimi sei anni insieme all’ong Amani che da più di vent’anni si occupa di dare un’opportunità a centinaia di bambini e giovani che vivono in strada, lontani dalle loro famiglie, in pericolo costante e senza un futuro.
Come si fa a dire a questi ragazzi come a migliaia di altre persone che vivono nelle stesse condizioni di restare a casa? Quale casa? Come si fa a dire a dei bambini che hanno sperimentato l’abbandono e che da poco hanno ricominciato una vita scegliendo di entrare in case di accoglienza e scuole di rispettare il distanziamento sociale?
È quello che si è chiesto padre Renato Kizito Sesana – il missionario comboniano che ha ispirato la fondazione di Amani – in alcuni post di aggiornamento su Facebook dove ha raccontato l’arrivo del coronavirus in Kenya, il 16 marzo. La scelta del presidente Uhuru Kenyatta di adottare una serie di misure per prevenire la diffusione del virus fanno sorgere diversi interrogativi: “Restare a casa? Dov’è la casa? Forse una stanza dove la sera si mettono coperte per terra perché ci sia abbastanza spazio per stare tutti sdraiati. Servizi in comune. Acqua alla fontana. Se chiuderanno le scuole dove andranno i bambini?”, si domanda padre Kizito.
“Chi, in caso di gravi complicazioni, avrà accesso a cure mediche dignitose? Temo che – prosegue – nonostante la buona volontà del governo keniano di tenere i contagi sotto controllo, di fatto a Nairobi ci avviamo verso una soluzione tipo quella auspicata da Boris Johnson in Gran Bretagna: la cinica accettazione di aspettare che si attivi l'immunità di gregge”.
È sempre questione di prospettiva. Noi, italiani – nonostante per chi ci osserva siamo univocamente il paese più colpito al mondo – ci dividiamo tra Nord e Sud, tra chi resta e chi fugge, tra chi resta a casa e chi va a lavorare, tra chi non rinuncia alla corsetta e chi alla sigaretta, tra chi “deve” portare fuori il cane a fare la passeggiata per evitare che faccia i bisogni in giardino e chi non ha nemmeno un balcone.
Come se tutto fosse una partita di calcio senza fine. Ci dividiamo in tifoserie unite solo dall’angoscia di vivere ai domiciliari. Alla ricerca di un alibi pur di non compiere un gesto di solidarietà, di non rispettare una regola semplice: restare a casa per il bene comune.
Ci sono luoghi del mondo dove l’espressione “restiamo a casa” è priva di senso. Perché casa non c’è, il distanziamento sociale è impossibile, gli ospedali non sono in grado di far fronte a un’epidemia. Eppure si lotta e si resiste.
Portando questa discussione dal piano individuale a quello collettivo, come non citare lo scontro tra la tifoseria che sostiene che questa pandemia avrà risvolti positivi sul piano climatico e ambientale e quella che pensa che una crisi globale è sempre stata l’anticamera di un’impennata della produzione, dei consumi e quindi delle emissioni inquinanti e di CO2. Se è un dato di fatto che l’inquinamento atmosferico è calato qui come in Cina nel breve periodo, cosa sarà dei negoziati per il clima che subiranno un ritardo che non ci possiamo permettere? Ora che siamo entrati nel decennio per il clima, “un decennio che non ci sono parole per spiegare quanto sia importante”.
Chi vuole vincere impari prima a perdere
Chi vuol tenere prima deve sapere cosa lasciare
Chi vuole insistere impari prima a cedere
Chi vuole amare prima deve imparare a rinunciare
Ricordiamoci tutto questo prima di prendere parte all’ennesimo, inutile scontro intellettuale. Proviamo a pensare a tutto questo prima di prendere per forza una posizione. Proviamo a usare il buon senso e unire gli sforzi per raggiungere un obiettivo comune, invece di dividere e dividerci pur di finire sotto i riflettori e mantenere privilegi per pochi. Solo così potremo vincere questa battaglia senza rischiare di perdere le libertà per tutti, quelle conquistate con anni di fatica.
Questo episodio, il settimo del Climatariano, storie sulla crisi climatica e sulle sue soluzioni, giunge al termine.
Il prossimo appuntamento è per sabato 4 aprile. Chissà se sarà il primo giorno di primavera o il primo di una nuova quarantena.
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Questo progetto nasce dall’idea che il decennio in cui siamo entrati è fondamentale e definirà il nostro futuro perché non ce ne sarà un altro a nostra disposizione. Le soluzioni che verranno adottate per contrastare la crisi climatica nei prossimi anni sono quelle definitive.
Cosa ho citato in questo episodio:
Come questa pandemia rischia di rallentare l’azione per il clima, di Emanuele Bompan
Coronavirus. L’Africa è ancora in tempo per evitare il peggio, di Andrea Barolini
Runner, untori e il bisogno di odiare chi esce da casa, di Dario Accolla
Il coronavirus potrebbe non essere una buona notizia per il clima, di Gabriele Crescente
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