No (climate) justice, no peace
Negli Stati Uniti torna a farsi sentire la voce di chi chiede diritti, giustizia, parità. E nel movimento per il clima trova il suo ariete globale.
Qui si parla di crisi climatica, ma si parla anche di soluzioni perché il decennio in cui siamo entrati è il decennio per il clima. Il decennio in cui salveremo il nostro Pianeta da un futuro incerto, oscuro.
Quello che sta per cominciare è un nuovo episodio del Climatariano. Un episodio che arriva tardi rispetto alla tabella di marcia per vari motivi. Ne cito solo due. Il primo: stiamo vivendo un periodo intenso come redazione di LifeGate. Abbiamo da poche ore lanciato il sito nuovo. Un’opportunità che speriamo possa dare nuova linfa e adrenalina a noi che raccontiamo storie di sostenibilità, ma soprattutto a chi ci legge da tempo o ci leggerà per la prima volta nei prossimi giorni. Qui trovate l’essenza di questo nuovo inizio. Il secondo motivo è che non è stato facile mettere insieme ciò che leggerete in questa newsletter, ovvero razzismo e riscaldamento globale.
Sono passati dieci giorni, ma abbiamo ancora tutti negli occhi il video di George Floyd, l’uomo afroamericano di 46 anni che il 25 maggio è stato ucciso a Minneapolis, negli Stati Uniti, in nove minuti scarsi da Derek Chauvin, un poliziotto bianco. Soffocandolo.
Floyd non aveva colpe, se non quella – presunta – di aver tentato di usare una banconota da 20 dollari, falsa, in un ristorante. Nulla a che fare, dunque, con la sua vita, la sua incolumità o quella altrui.
Questa è una storia che si ripete tutti i giorni negli Stati Uniti. Spesso più volte al giorno. È difficile trovare un giorno senza che un poliziotto sia responsabile della morte di un essere umano. Nel 2019 sono stati solo 27 i giorni in cui la polizia non ha ucciso nessuno secondo il sito Mapping police violence. Per un totale di 1.099 morti, tre al giorno. Di questi, il 24 per cento era afroamericano, nonostante gli afroamericani rappresentino il 13 per cento della popolazione americana.
Da quel giorno l’America è esplosa. Proteste sono scoppiate in numerose città e almeno due persone hanno perso la vita. Nella capitale Washington una via – anzi la via – che porta alla Casa Bianca è stata intitolata al movimento Black lives matter per volere della sindaca Muriel Bowser e sull’asfalto è stata dipinta la scritta a caratteri cubitali e con vernice indelebile.
È ancora lontano il giorno in cui gli afroamericani “non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per chi sono nel cuore”, affermava Martin Luther King il 28 agosto del 1963, in un discorso – quel discorso, quello con la D maiuscola – in cui chiedeva eguaglianza, giustizia sociale.
Una condizione tale per cui “ogni individuo o collettività deve essere considerato alla stregua di tutti gli altri, e cioè pari nei diritti civili, politici, sociali ed economici”. In tutto ciò, il mondo del giornalismo ha un ruolo fondamentale, come scritto anche da Danielle Kilgo su The Conversation: “I giornalisti hanno un ruolo indispensabile perché possono permettere ai movimenti di ottenere legittimità e quindi di raggiungere dei progressi sociali”.
Parole che risuonano nello storytellig politicamente corretto preso in considerazione da Kilgo. I 777 articoli analizzati dal 2017 a oggi “si concentravano sull’aspetto spettacolare più che sulla sostanza delle proteste”. Ed è per questo che i giornalisti ora devono cambiare passo, per consentire all’opinione pubblica di conoscere, essere informati e metabolizzare. Per poi arrivare a un cambiamento di mentalità. Aspetti che si sovrappongono alla modalità di narrazione di un’altra questione fondamentale: quella della crisi e della giustizia ambientale e climatica.
We are way overdue in America for a reckoning that addresses the long-standing injustices borne by black, brown, and indigenous people. Entrenched, systemic racism in our country has led to disproportionate impacts of pollution on communities of color, along with disparities in income, education, healthcare, and more. Today, African Americans are suffering from Covid-19 more than any other race, in part because their much higher exposure to air pollution increases the mortality rate from the virus. We have a moral obligation to demand equality for all, regardless of race, creed, sexual orientation, or economic status. The need for climate action is bound together with the struggle for racial equality and liberation. I stand with the peaceful demonstrations across America calling for equal justice now – Al Gore
Il razzismo infatti, non si manifesta solo attraverso le modalità di trattamento che una parte di popolazione americana e globale riserva alle minoranze di colore, religiose, agli indigeni, ma si manifesta chiaramente anche quando sono dinamiche esterne a interferire con il genere umano.
È successo con l’odierna pandemia che negli Stati Uniti ha colpito soprattutto gli afroamericani per la loro esposizione maggiore all’inquinamento (che aumenta l’incidenza e la mortalità del virus Sars-Cov-2), come evidenziato nella dichiarazione sull’omicidio Floyd fatta dall’ex vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, ora leader per il clima.
Succede da decenni con la crisi climatica i cui effetti catastrofici – come uragani, innalzamento del livello dei mari, ondate di calore – colpiscono soprattutto le popolazioni più povere, quelle che vivono in zone più vulnerabili e che non hanno possibilità di mettersi in salvo altrove in caso di eventi meteorologici estremi.
Per questo il movimento che lotta per il clima chiede a gran voce che venga riconosciuto il concetto di giustizia climatica. Perché senza giustizia non ci può essere pace. Parole identiche a quelle che risuonano nelle strade americane e di altri paesi del mondo in questi giorni.
Oltre alle conseguenze, un altro aspetto da considerare è quello delle cause. Se si parla di crisi climatica a livello globale, infatti, i paesi in via di sviluppo, quelli più poveri, sono quelli che soffrono maggiormente le conseguenze negative del riscaldamento globale, nonostante siano storicamente i paesi che hanno meno responsabilità. Al contrario dei paesi industrializzati che hanno raggiunto benessere e ricchezza sfruttando senza limiti le risorse naturali, producendo grandi quantità di emissioni di CO2 e inquinamento senza pagarne le conseguenze in modo drammatico.
Ancora una volta, dunque, sono i paesi del sud del mondo, per la maggior parte popolati da persone non bianche a pagare il prezzo più alto.
Questi sono i motivi principali per cui le disuguaglianze e le discriminazioni economiche e sociali sono anche una questione ambientale.
Il movimento per l’ambiente e per il clima può e deve fungere da ariete per tutti quei movimenti che chiedono più diritti, uguaglianza e parità. Perché racchiude in sé la scintilla in grado di far esplodere la ricerca di un mondo più equo.
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Il Climatariano nasce dall’idea che il decennio in cui siamo entrati è fondamentale e definirà il nostro futuro perché non ce ne sarà un altro a nostra disposizione. Nasce per offrire un punto di vista già “metabolizzato” sulla crisi climatica. E per conoscere le soluzioni. L’obiettivo è darti una panoramica selezionata, autorevole di quello che accade nel mondo.
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