Senza lasciare indietro nessuno
Dall'Europa al Pacifico, solo così si può affrontare la crisi climatica
Qui si parla di crisi climatica, ma si parla anche di soluzioni perché il decennio in cui siamo entrati è il decennio per il clima. Il decennio in cui salveremo il nostro Pianeta da un futuro incerto, oscuro.
Per il terzo “episodio” del Climatariano, dunque, parliamo di soluzioni, o perlomeno di due fatti positivi che hanno caratterizzato i giorni scorsi:
la notizia che non si possono chiudere le porte ai profughi climatici;
l’annuncio del piano di investimenti europeo da 1.000.000.000.000 (mille miliardi – sì, gli zeri sono dodici) di euro per azzerare le emissioni di CO2.
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Verso lo status di rifugiato climatico
Kiribati è uno degli stati isola più minacciati dall’innalzamento del livello dei mari. È un arcipelago dell’oceano Pacifico composto da 33 atolli corallini e altri piccoli isolotti che finirà sott’acqua entro fine secolo se non si farà di tutto per evitarlo. Insieme a Kiribati anche altri stati isola dell’oceano Indiano sono in grave pericolo, come Tuvalu, le isole Marshall e le Maldive. Per gli abitanti di queste isole, dunque, è difficile immaginare un futuro e molti hanno iniziato a migrare pur di mettere in salvo la propria famiglia. Come ha fatto Ioane Teitiota, un nome noto a chi studia o ha studiato diritto ambientale e simili dietro ai banchi universitari.
A Teitiota, nel 2015, era stato negato lo status di rifugiato climatico dalla Nuova Zelanda e costretto al rimpatrio perché per essere rifugiati bisogna dimostrare, secondo le regole del diritto internazionale, di essere perseguitati nel proprio paese d’origine.
O di scappare da una guerra.
Del resto, nella Convenzione di Ginevra del 1951 c’è scritto che il rifugiato è quella persona che “nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque essendo apolide e trovandosi fuori dal suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi”.
Oggi, la speranza di riuscire a migliorare un testo fondamentale per l’umanità si riaccende perché il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che, anche se la vita di Teitiota non è in imminente pericolo, “senza sforzi nazionali e internazionali consistenti, gli effetti dei cambiamenti climatici potrebbero portare le persone a vedere violati i loro diritti”, ad esempio se non accolti o, addirittura, rimpatriati forzatamente.
Tutto questo, però, non deve far dimenticare un altro concetto fondamentale: la dignità di queste persone. Gli abitanti di Kiribati e di tutti gli altri stati che vedono la loro terra sparire sotto i piedi (inevitabile il paragone con Venezia) non vorrebbero mai abbandonare la loro casa, le loro origini, la loro storia. E per questo vi ripropongo le parole dell’ex presidente di Kiribati Anote Tong, che ho avuto l’onore di intervistare nel 2017, durante la Cop 23:
“Ho sempre rifiutato il concetto di rifugiato climatico. Rifiuto la terminologia e la classificazione della nostra gente come tale. Perché l’ultima cosa che vogliamo perdere, oltre alla nostra terra, è la nostra dignità. Vorrei che la nostra gente possa decidere se spostarsi, in modo volontario. E nel caso decidesse in tal senso, dovrebbe farlo con dignità. Come potremmo raggiungere questo risultato? Dovremmo essere proattivi, non vittime. Provvedere attivamente all’istruzione e alla formazione dei nostri cittadini affinché possano avere le qualità per entrare in società nuove, come persone qualificate. Saranno in grado di integrarsi nelle comunità come cittadini meritevoli, come leader. E saranno in grado di farlo con dignità”.
Conclusioni: Teitiota e la sua famiglia non possono ancora ottenere la protezione umanitaria che si meritano, ma le cose stanno cambiando velocemente. Solo cinque anni fa la risposta della Nuova Zelanda era stata negativa, una chiusura “senza appello”. Tra cinque anni, forse, racconteremo del primo essere umano che verrà accolto da un Paese, non perché vittima della crisi climatica, ma come persona a cui è stata data la possibilità di avere un futuro.
Il piano epocale da 1.000.000.000.000 €
La seconda buona notizia è il piano da mille miliardi di euro di investimenti – su cui non mi dilungherò molto – che la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen ha presentato il 15 gennaio per posizionarsi come leader mondiale nella lotta contro il riscaldamento globale.
L’Unione europea ha l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 40 per cento entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, e di azzerarle del tutto entro il 2050. Per farlo deve aiutare le regioni che ospitano industrie fortemente inquinanti (come l’ex Ilva), che sono più dipendenti dai combustibili fossili, come il carbone, a smettere e trovare un’alternativa senza andare in “crisi d’astinenza”.
Per riuscire in questa impresa, però, serve visione, servono soldi e soprattutto servono azioni concrete in grado di portare a termine una transizione economica epocale, senza lasciare indietro nessuno. Per chi si stesse chiedendo da dove arrivano tutti questi soldi, da quali tasche, “e allora noi italiani?” e chi più ne ha più ne metta consiglio una lettura approfondita dell’articolo scritto da Valentina Neri per LifeGate.
Agli altri voglio far notare un aspetto di questo piano – ripeto – epocale (aggettivo che finalmente è opportuno usare secondo la definizione che gli dà la Treccani, cioè “che segna un’epoca, che costituisce l’inizio di un periodo storico”): il concetto della transizione giusta, cioè che “avvenga in modo equo e che non lasci indietro nessuno”.
Nei prossimi dieci anni cambieranno “il modo di consumare, di abitare e il modo di alimentarsi”, ha affermato la quota italiana a Bruxelles Paolo Gentiloni. Ma tutto questo avverrà aiutando soprattutto chi ha più bisogno, chi è rimasto indietro. Queste le parole di von der Leyen:
“Le persone sono al centro del green deal europeo. La trasformazione che stiamo per intraprendere è senza precedenti. E funzionerà solo se sarà giusta e se andrà bene a tutti. Aiuteremo la nostra gente e le nostre regioni che dovranno affrontare gli sforzi maggiori in questa trasformazione, per essere certi di non lasciare indietro nessuno”.
Conclusioni: in un’epoca di “first”, di “prima” qualcuno o qualcosa, l’Europa sembra essere l’ultimo baluardo di umanità e di equità rimasto al mondo. Un’umanità di cui non beneficeranno solo gli europei ma che, al contrario, ha come ambizione quella di diventare contagiosa. L’Europa che vuole diventare leader nella lotta contro la crisi climatica, non è un’Europa che pecca di superbia. È un’Europa che spera che gli altri attori internazionali trovino in “lei” una fonte d’ispirazione e uno stimolo a fare altrettanto.
Il prossimo appuntamento è per sabato 8 febbraio. Per dubbi e suggerimenti, rispondi a questa email.
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